Non è una novità.
Già negli scorsi anni, la ricerca dell’oro e l’attività estrattiva stavano nuovamente ponendo in serio rischio la foresta pluviale dell’Amazzonia.
La modifica del codice forestale del Brasile, effettuata nel 2012, ha previsto una riduzione dei controlli sulla deforestazione.
Ora, con la presidenza di Jair Bolsonaro (2019), i pericoli sono cresciuti in maniera esponenziale.
Dopo i grandi incendi in Siberia, alle Isole Canarie, fino in Alaska e in Groenlandia, il disastro ambientale del criminale fuoco doloso è giunto in Amazzonia, grazie al clima di favore verso la deforestazione instaurato proprio dalla politica di Bolsonaro.
Difficilmente le popolazioni native riescono a opporsi in qualche modo e la loro stessa sopravvivenza è in grave pericolo.
Ben 72 mila incendi nel 2019, l’84% in più rispetto al 2018 (dati I.N.P.E., l’agenzia spaziale brasiliana), mentre il presidente Bolsonaro accusava le O.N.G. d’aver appiccato il fuoco…
“Il ciclo della deforestazione in Amazzonia inizia quasi sempre così; alle fiamme seguono le ruspe per portare via i resti di alberi, poi si installano gli animali al pascolo e infine le coltivazioni. Tutto secondo calendario: si brucia quando non piove, si pianta prima dell’arrivo delle piogge, entro ottobre e novembre. La soia cresce velocemente e regala profitti straordinari”.
Solo la minaccia di sanzioni internazionali ha fatto sì – dopo settimane di incendi senza alcun controllo – che il governo brasiliano iniziasse a affrontare il problema dello spegnimento degli incendi, inviando l’esercito.
44 mila militari contro il fuoco, mentre le proteste si diffondono a macchia d’olio in Brasile e in sede internazionale.
Il buon presidente Bolsonaro sarebbe orientato a rifiutare per sconosciuti motivi i 20 milioni di dollari offerti per la riforestazione da parte dei Paesi del G7. La fondazione ambientalista Earth Alliance, sostenuta dall’attore Leonardo Di Caprio, ha offerto altri 5 milioni di dollari, mentre un’ulteriore donazione di 10 milioni di euro è stata stanziata da Lvmh, il gruppo francese del lusso guidato da Bernard Arnault.
Ecco che cosa accade quando l’ambiente e le sorti della Terra sono in mano a simili personaggi.
Mai dimenticarlo.
Gruppo d’Intervento Giuridico onlus

dal sito web istituzionale del Sistema nazionale per la Protezione dell’Ambiente (S.N.P.A.), 23 agosto 2019
Amazzonia, in fiamme la grande riserva di ossigeno del pianeta. (Lorenzo Ciccarese, I.S.P.R.A.)
Siberia, Isole
Canarie, Alaska, Groenlandia e ora Brasile: sono i luoghi funestati dalle
fiamme in questa estate 2019. Oltre 5 milioni di ettari di foreste – una
superficie pari a poco meno della metà dell’intero patrimonio forestale
italiano – sono andate in fiamme in Siberia nel solo mese di agosto. Un dato
senza precedenti nella storia della Russia. Per effetto di questi incendi una
nuvola di fumo d’oltre 5 milioni di chilometri quadrati (una superficie più
estesa dell’intero territorio dell’UE) ha avvolto gran parte del paese e le
principali città siberiane, come Novosibirsk, ha attraversato l’Oceano
Pacifico, raggiungendo gli Stati Uniti.
All’inizio di questa settimana, un incendio nelle Isole
Canarie ha costretto alla fuga oltre 8.000 persone. Qualche giorno prima i
social media e le televisioni hanno mostrato le immagini di incendi vasti e
violenti in Alaska, prolungando una stagione di incendi insolitamente lunga per
lo stato boreale. Qualche giorno prima, la Danimarca ha inviato vigili del
fuoco e mezzi anti-incendio in Groenlandia (parte del suo territorio) per
combattere un incendio che minacciava le aree abitate.
Ma tra tutti gli incendi avvenuti quest’estate nelle varie regioni del globo, la preoccupazione maggiore è rivolta verso quelli della foresta pluviale amazzonica, la più grande foresta tropicale del mondo. Da almeno due settimane le fiamme stanno divorando le foreste degli stati brasiliani di Amazonas, Rondonia, Mato Grosso, Parà e del Paraguay. I satelliti hanno invito immagini allarmanti d’un fumo molto denso che ha coperto San Paolo, la più grande città del Brasile, distante migliaia di chilometri dal cuore degli incendi divampati nello stato di Rondonia e nel Paraguay. Nel corso del 2019 circa 75 mila eventi incendiari sono stati registrati nella foresta pluviale amazzonica, un numero record, quasi il doppio rispetto al numero d’incendi nello stesso periodo del 2018. L’istituto nazionale per la ricerca spaziale (INPE) ha rilevato che nel mese di luglio sono stati bruciati 225 mila ettari di foresta pluviale amazzonica, anche questo un dato senza precedenti, il triplo rispetto a quelli del luglio 2018.
Perché avvengono questi incendi e a questa scala? La foresta pluviale amazzonica, che rimane umida per gran parte dell’anno, non brucia naturalmente. Gli incendi—come hanno testimoniato le istituzioni di ricerca e le organizzazioni non governative che operano in Amazzonia, tra cui IPAM—sono intenzionali. La responsabilità è attribuita agli agricoltori e alle grandi imprese zootecniche e agro-industriali, che usano il metodo “taglia e brucia” per liberare la terra, non solo dalla vegetazione, ma anche dalle popolazioni locali e indigene. Tutto ciò è illegale in Brasile. Ma questo è. Gli alberi vengono tagliati nei mesi di luglio e agosto, lasciati in campo per perdere umidità, successivamente bruciati, con l’idea che le ceneri possano fertilizzare il terreno. Quando ritorna la stagione delle piogge, l’umidità del terreno denudato favorisce lo sviluppo di vegetazione nuova per il bestiame.
L’allevamento del bestiame è responsabile dell’80% della deforestazione in corso nella foresta pluviale amazzonica. Una parte significativa dell’offerta globale di carne bovina, compresa gran parte dell’offerta di carne in scatola in Europa, proviene da terreni che un tempo erano la foresta pluviale amazzonica.
In questo contesto, un ruolo chiave è svolto dai cambiamenti climatici. Gli incendi sono favoriti e sostenuti dalle condizioni climatiche estreme, da ondate di calore prolungate e intense e da siccità prolungate, insolite per questa parte del mondo. L’amministrazione USA per gli oceani e l’atmosfera (NOAA) ha comunicato la scorsa settimana che lo scorso luglio è stato il luglio più caldo mai registrato da quando sono in uso gli strumenti per la misurazione del clima. Nella lista dei cinque mesi di luglio più caldi, appaiono quelli degli ultimi cinque anni. Questo non vale solo per l’emisfero settentrionale, dove in questo momento è estate, ma in tutto il mondo. La temperatura media globale dello scorso mese di luglio è stata di 0,56 °C più calda della media del trentennio 1981-2010. Questo dato, apparentemente insignificante, è una media e nasconde aumenti estremi registrati nel mese scorso in varie regioni del pianeta. Nei Paesi Bassi, in Germania e in Belgio sono stati stabiliti record di temperatura. Parigi ha registrato la sua temperatura più alta di sempre, 43 °C. Anche parti della Polonia, della Repubblica Ceca e della Spagna hanno registrato temperature record.
Non è quindi singolare che molte delle aree del pianeta che in questo momento sono attraversate dagli incendi siano state interessate da un caldo prolungato ed estremo nel corso del mese precedente. È noto a tutti che queste condizioni siano le più adatte per aggravare gli incendi. Temperature elevate e bassa umidità rendono la vegetazione facile preda degli incendi. Alcuni studi dimostrano che la stagione degli incendi si è allungata di 35-40 giorni, addirittura di 80 in California, ciò significa che iniziano prima e finiscono dopo. Cambiando le condizioni meteo-climatiche, cambiano anche le intensità degli attacchi degli insetti, che rendono le piante più vulnerabili: i rami secchi, le piante morte e il terreno arido fanno aumentare il materiale comburente e dunque il rischio degli incendi.
La distruzione e il degrado del manto forestale avrà importanti conseguenze nella regione. Senza alberi e senza vegetazione che svolgono la funzione di ancorare il terreno e di trattenere l’umidità, la vegetazione sottostante può seccarsi, facilitando la combustione. Senza gli alberi, che attraverso la traspirazione liberano un enorme volume di acqua ed emettono sostanze chimiche che lo fanno condensare, diminuiranno le piogge. In questo momento, l’Amazzonia è stata disboscata per oltre il 15% rispetto al suo stato iniziale (epoca pre-umana). Gli scienziati sono preoccupati che se il disboscamento dovesse raggiungere il 25%, non ci saranno abbastanza alberi per mantenere l’equilibrio del ciclo dell’acqua. La regione attraverserà un punto critico ed eventualmente evolvere verso la savana. Ciò avrebbe enormi conseguenze anche per il resto del mondo. La foresta pluviale amazzonica produce enormi quantità di ossigeno. La sua vegetazione trattiene miliardi di tonnellate di carbonio nella vegetazione, nella lettiera e nel suolo, che potrebbero ossidarsi e liberarsi in atmosfera, aumentando l’effetto serra.

L’Amazzonia è anche un hotspot della biodiversità e include il luogo più ricco di biodiversità sulla Terra, rendendo la sua conservazione una questione chiave per arrestare l’estinzione estinzioni di piante e animali. Centinaia di migliaia di indigeni in oltre 400 tribù vivono in Amazzonia e fanno affidamento sulla foresta pluviale per sostenere le loro vite e preservare le loro culture.
Molti osservatori ritengono che alla radice di quest’aumento del ritmo di incendi e della deforestazione che sta attraversando il Brasile ci siano gli indirizzi che il nuovo governo ha voluto rispetto alle politiche di conservazione avviate dai governi precedenti, che avevano dato dei buoni risultati. Anche grazie agli investimenti dei governi e dei donatori per conservazione delle foreste. Adesso, allevatori e imprenditori agricoli si sentono incoraggiati e sostenuti dal governo ad avviare attività di ‘sviluppo’ in territori coperti da foreste, molti dei quali sono territori indigeni.
Negli ultimi giorni è arrivata la decisione dei governi norvegese e statunitense di interrompere il finanziamento dei progetti di conservazione delle foreste di fronte alla ripresa della deforestazione.

Molte ricerche hanno dimostrato
che le pratiche di gestione indigene sono l’approccio migliore per mantenere la
salute delle foreste pluviali tropicali a livello globale.
Solo qualche settimana fa, il gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici
(IPCC)—con la pubblicazione del riassunto per i decisori politici del rapporto
Climate Change and Land: an IPCC special report on climate change,
desertification, land degradation, sustainable land management, food security,
and greenhouse gas fluxes in terrestrial ecosystems—ha riferito che la
conservazione delle foreste e una gestione sostenibile del territorio dovranno
essere parte integrante e decisivo nelle strategie di mitigazione dei
cambiamenti climatici e della conservazione della biodiversità. L’attuale ritmo
di deforestazione (13 milioni di ettari l’anno, 250 milioni negli ultimi due
decenni) e degradazione delle foreste è la principale causa del declino della
biodiversità e dell’accumulo di gas serra in atmosfera.
Secondo l’IPCC la distruzione delle foreste in altre forme di uso del suolo, il loro incendio, il drenaggio delle torbiere e delle aree umide e la distruzione di prati e di pascoli, sono alla radice delle emissioni di enormi quantità di anidride carbonica (CO2): circa 5,5 miliardi di tonnellate di anidride carbonica equivalente, pari al 14% delle emissioni globali di gas serra. La gestione delle aree agricole (specialmente la coltivazione per sommersione del riso) e l’allevamento di bestiame producono circa l’11% delle emissioni globali. In totale, un quarto delle emissioni globali di gas serra. La distruzione degli ecosistemi naturali e seminaturali è grave non solo perché contribuisce all’effetto serra e ai cambiamenti climatici, ma anche perché rimuove una funzione chiave che gli ecosistemi garantiscono all’umanità, quella di assorbire le emissioni dall’atmosfera e ‘sequestrarle’ nelle piante, nella lettiera e nel suolo sotto forma di sostanza organica.
Con questo degrado e ‘consumo’ di suolo stiamo pericolosamente rinunciando a un’opzione importante per raggiungere il livello net zero emissions entro il 2050, il target che lo Special Report 1.5 dell’IPCC pubblicato lo scorso anno indica ai decisori politici se vogliamo contenere il riscaldamento globale a meno di 1,5°C.

(foto Lunae Parracho/Reuters, da mailing list ambientaliste)