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Richiami vivi. L’ombra della luce.

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esemplare di Merlo (Turdus merula) utilizzato come richiamo vivo

I tempi cambiano e le gabbiette per gli uccelli da richiamo non sono più intoccabili.

11 marzo 1996, la nota prot. n. 1470/T.A 62 dell’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica (oggi ISPRA) indirizzata all’allora Ministero delle Risorse Agricole Alimentari e Forestali (oggi MiPAAF) pretendeva di “fornire una valutazione di carattere tecnico-scientifico esaustiva riguardo la detenzione di uccelli per uso venatorio”.

Man mano che si procede nella lettura del documento si scoprono cose sorprendenti che portano a concludere che un uccello in gabbia sta addirittura meglio di un uccello in libertà: la durata della vita è superiore, gli animali dispongono sempre di “acqua pulita” e “mangimi bilanciati posti in commercio dall’industria mangimistica”, gli uccelli cantano felici (se emettessero vocalizzazioni di angoscia allontanerebbero i conspecifici invece di attirarli a distanza utile al cacciatore per “l’azione di caccia”), addirittura in cattività si accoppiano, depongono le uova e accudiscono la prole (se l’animale fosse in uno stato di malessere addio successo riproduttivo). Il parere lascia anche intravedere la possibilità che gli uccelli “stabulati in gabbia” stiano meglio degli animali in libertà anche dal punto di vista delle infestazioni parassitiche.

Frosone impiegato illegalmente come “richiamo vivo” dai bracconieri G.G. e R.D. (Bastia di Rovolon, 17 ottobre 2015)

Gli uccelli detenuti per uso venatorio  godono allora di un “soddisfacente benessere psico-fisico”, sono “longevi”, hanno la possibilità di “espletare le funzioni fisiologiche essenziali” e godono di un ottimo “stato di salute”: cantano di gioia, mangiano e bevono a volontà, e per farli riprodurre non servono nemmeno gli “esperti allevatori” ma bastano gli “stessi cacciatori”.

Le gabbiette comunemente in commercio per richiami vivi, “20 x 15 x 20  cm per l’allodola e 30  x  25  x  25  cm per merlo,  cesena,  tordo  bottaccio e tordo  sassello” sono di dimensioni perfette perché “ impediscono danni e traumi che si determinerebbero, al tentativo di volo, contro le sbarrette della gabbia”.

esemplare utilizzato come richiamo vivo

E ancora “non possono essere paventati pericoli di atrofia dei muscoli delle ali o di perdita del tono muscolare per il mancato esercizio del volo”.

Cosa dire poi dell’impossibilità, da parte degli uccelli, di poter aprire completamente le ali considerate le minuscole dimensioni delle gabbie? Secondo “questo Istituto” nessun problema perché “la postura con entrambi le ali completamente aperte non corrisponde ad una posizione naturale e non viene affatto adottata se non in volo”, al massimo gli animali compiono un “movimento ritmico ad ali semichiuse” oppure “stirano una singola ala alla volta”.

Che dire infine delle abrasioni e delle penne rotte degli uccelli contro le pareti delle gabbie?

“Non può essere considerato un elemento causa di malessere dell’uccello detenuto” in quanto “è dimostrato che le penne degli uccelli sono soggette naturalmente ad abrasione e rottura ed è proprio attraverso la muta che esse vengono periodicamente rinnovate” e inoltre “le penne sono costituite da tessuto completamente cheratinizzato, e quindi morto, per cui la loro abrasione o rottura non provoca sofferenza per l’animale”.

Anzi, “la perdita delle penne stimola le cellule costituenti la papilla dermica a produrre una nuova penna” e questo sembra persino suggerire che la perdita delle penne per sfregamento contro la gabbia aiuti a “conservare il fenomeno fisiologico della muta anche in cattività”.

Insomma, Uccelli di tutti i Paesi, date retta all’ex INFS (ISPRA) che ne sa più di voi: una gabbietta 20 x 15 x 20 e un padrone cacciatore vi convengono!

Altro che la vita stentata che fate, fatta di freddo o siccità, di predatori e lunghe e costose migrazioni.

Non sarà un loft ma non vorrete mica ferirvi in vani tentativi di volo, vero?!

Da decenni, pareri come quello appena descritto, condizionano pesantemente il dibattito e la giurisprudenza sulla detenzione di uccelli per uso venatorio.

La detenzione in gabbia di uccelli da usare come richiami per la caccia è consentita dall’articolo 4 della Legge 11 febbraio 1992, n. 157, e pur tuttavia le dimensioni delle gabbiette non sono normate da specifici articoli di legge ma sono il risultato del commercio e di abitudini e comodità venatorie (facilità nel trasporto in automobile dei richiami vivi) consolidatesi nel tempo.

Se poi a dire che le gabbiette 20 x 15 x 20 cm sono perfette ci si mette anche un ente pubblico di ricerca, qual è l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), il gioco è fatto.

Infatti l’ISPRA svolge funzioni di supporto al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare.

Ma chi emise quel benedetto parere (uno dei tanti) poc’anzi raccontato?

Allodola (Alauda arvensis)

“Questo Istituto ritiene che” va letto come “Mario Spagnesi ritiene che”.

Infatti il firmatario del documento sopraccitato è nientemeno che Mario Spagnesi, classe 1943, per oltre vent’anni Direttore Generale dell’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica (ora ISPRA), Presidente di Ekoclub International dal mese di ottobre 2005 al luglio 2010[1] ed autore del libro dal titolo eloquente “Manuale dell’aspirante cacciatore.”

“La differenza di Ekoclub da altre associazioni ambientaliste è la centralità dell’uomo rispetto all’ambiente”[2] è quanto affermato dalla stessa Associazione braccio destro e discendente dalla costola della Federazione Italiana Della Caccia.

Ma prima o poi tutti i nodi vengono al pettine.

Da qualche tempo si sta facendo largo un nuovo orientamento giurisprudenziale che finalmente riconosce il reato di maltrattamento animale per chi rinchiude uccelli in gabbie anguste per utilizzarli come richiami vivi: “Costituisce maltrattamento la detenzione di volatili in piccole gabbie, poiché essa priva l’animale della possibilità di movimento e di espansione, se non al prezzo di sanguinamento e sofferenza” (Cass. Pen. Sez. III. Sentenza n. 68971 del 16.06.1995).

Con la sentenza Sez. III, 17 gennaio 2013, n. 2341 la Corte di Cassazione ha riconosciuto il reato di maltrattamento di cui all’articolo 727 comma II del Codice Penale nella detenzione di uccelli in gabbie anguste. Nel testo della sentenza si legge che “Il detenere uccelli in gabbie anguste piene di escrementi, essendo l’inadeguata dimensione delle gabbie attestata dal fatto che gli uccelli hanno le ali sanguinanti, avendole certamente sbattute contro la gabbia in vani tentativi di volo, integra il reato di cui all’articolo 727 comma 2 del Codice Penale poiché, alla luce del notorio, nulla più dell’assoluta impossibilità del volo è incompatibile con la natura degli uccelli(Cass. Sez. III n. 2341 del 17 gennaio 2013).

Ma il vento di rinnovamento si sta facendo sentire anche in Provincia di Padova.

Merlo femmina (Turdus merula)

Con Decreto Penale di Condanna N. 786/16 R.D.P., N. 2015/008264 R.G. G.I.P., il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Padova ha recentemente condannato un cacciatore di Cervarese S. Croce (PD), fermato dalle Guardie Zoofile dell’E.N.P.A., per l’art. 727 c. 2 C.P. poiché “impegnato in attività venatoria in appostamento, deteneva una allodola in condizioni incompatibili con la natura dell’animale e produttive di gravi sofferenze, atteso che il volatile era detenuto in una gabbia molto piccola (20x15x20) ed utilizzato come richiamo vivo, era privo di tutte le falangi della zampa sx…”

È compito di tutti i pubblici ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, impegnati a vario titolo in controlli sugli animali, denunciare all’Autorità Giudiziaria il maltrattamento degli animali, compresi chiaramente gli uccelli detenuti in gabbie anguste e impiegati come richiami vivi nella caccia.

Il maltrattamento animale è infatti un reato di competenza trasversale di tutte le Forze di polizia, nessuna esclusa.

Allodola nella gabbia da richiamo

L’art. 1 c.1 il D.M. 23 marzo 2007 recita: “Le attività di prevenzione dei reati di cui alla legge 20 luglio 2004, n. 189 sono demandate in via prioritaria al Corpo Forestale dello Stato e, nell’ambito territoriale dell’ente di appartenenza ed in quello funzionale dei rispettivi ordinamenti ed attribuzioni, ai Corpi di polizia municipale e provinciale, ferme restando comunque le funzioni di polizia giudiziaria che la legge rimette a ciascuna Forza di polizia.”.

Infatti,il maltrattamento di animali è un reato comune di competenza di tutta la polizia giudiziaria e non richiede, per il suo accertamento, una particolare conoscenza tecnica o la presenza di un veterinario, essendo sufficiente per la materia il bagaglio culturale e l’esperienza degli operatori di polizia (cfr. Cass. pen. III Sez., Sent. 835 del 27/4/95, Nichele).

È compito di tutti i medici veterinari, i biologi, i naturalisti ecc. smentire puntualmente e smascherare chiunque, soprattutto per opportunismo, continui a prolungare il fondamento del maltrattamento animale, spesso ricorrendo ad artifici supposti scientifici.

C’è un grande ed urgente bisogno di professionisti (giuristi, medici, agenti di polizia, ecc.) che stilino referti, compiano indagini e scrivano relazioni specialistiche a difesa degli animali, contro il loro maltrattamento.

Michele Favaron, Gruppo d’Intervento Giuridico onlus – Veneto

 

____________

[1] http://www.ekoclub.it/testi/profilo_spagnesi.htm

[2] http://www.ekoclub.it/?page_id=2

 

batteria di richiami vivi

(foto M.F., S.D., archivio GrIG)



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